I viaggi iniziano sempre in modo strano, con particolari stati d’animo e sentimenti contrastanti. Figurarsi per il mio primo viaggio fuori dall’Europa: anche se consideriamo gli Stati Uniti qualcosa di familiare per cultura, letteratura, musica, cinema e molto altro, un viaggio in un paese così distante ha sempre il sapore dell’avventura. Per passare il tempo sull’aereo ho guardato due film: Me estas matando Susana (messicano, commedia) tanto per tenermi in allenamento con lo spagnolo, il secondo 乘风破浪, (Ride the Winds, Break the Waves , titolo commerciale Duckweed) in lingua originale con i sottotitoli in inglese. Non voglio parlarvi dei film, ma solo del fatto che in quello cinese, verso la fine, è presente una canzone di Richard Antony del 1962, poi ripresa da Battiato recentemente, J’entend siffler le train, una canzone struggente e malinconica che parla di un addio e di cui io avevo il 45 giri comprato da mio fratello più grande. Mi ha molto colpito il fatto che nel 2017 un regista cinese riprendesse una vecchia canzone francese, tutto sommato non così conosciuta, e sono rimasto affascinato da questa circostanza che conferma ancora una volta come a volte il mondo che noi pensiamo così lontano, così diverso, si nutra spesso degli stessi ricordi, delle stesse emozioni. Mi capita spesso di legare questi piccoli episodi emotivi a fatti, persone, città. Ora che il viaggio è finito ho cercato quindi di ricostruire, di ricordare quali fossero i “significanti” di questi pochi giorni in America. New York è proprio come te l’aspetti: inebriante, multietnica, massacrante, senza pause, crudele, caotica, eccessiva, soffocante, con quei suoi vapori sputati dal sottosuolo che ti immagini infernale, con le strade coperte di SUV neri dai vetri inquietanti, senza nessuna eleganza, così terribilmente cool, così poeticamente snob, dove tutto ha un prezzo e il prezzo è tutto, dove il tempo gira, dove la testa gira, dove la notte e il giorno sembrano accidenti tollerati. New York quasi sempre la “riconosci”: l’Empire (al tramonto, mi raccomando), Central Park, il MoMa, il Met, Il Guggenheim, il Rock, i nuovi cool districts, Chelsea, Soho, i vecchi, Greenwich, l’East Village, la Fifth, la Madison, Wall Street, Ground Zero, il Radio City, Brodway, Tiffany, il Plaza, il Walldorf, Little Italy, Brooklyn Bridge, Ellis Island, la Statua della Libertà, etc. Sono tutti luoghi di film, di libri, di fotografie, di racconti di altri viaggi. E’bellissimo vederli, è emozionante visitarli, è come ripassare una lunga memoria visiva disseminata di scene, facce, frasi celebri, battute, è la reinterpretazione che ognuno di noi può fare di decine e decine di “luoghi comuni”. Eppure c’è qualcosa che va al di là della bellezza, diciamo, ostentata. Sono piccoli luoghi dove è più facile vivere emozioni personali, dovute o al caso o alla luce o, semplicemente, al momento in cui ci arrivi: per me sono stati piccoli giardini o parchi minori, che ti permettono di interrompere la spasmodica maratona giornaliera della conoscenza. Innanzi tutto Bryant Park: un prato verde grande come un campo di calcio, circondato da vialetti con alberi e panchine, incastonato tra la Public Library (56 milioni di volumi!!!) e uno dei più vecchi grattacieli di New York, dominato, poco più in là, dall’Empire. Siamo arrivati al tramonto, mentre era in corso l’Emerging Music Festival, suonava un gruppo chiamato Space Captain (che è anche il titolo di una canzone di Joe Cocker), e non so, sapete quando la musica fa un po' l’effetto dell’alcool, aiuta la circolazione insomma e riduce la distanza tra la realtà e i sogni, ecco mi sono lasciato trasportare da quel sound un po' psico, un po' soul/jazz, il buio piano piano ha preso il sopravvento e, nonostante le sirene, il traffico e la vicinanza ingombrante di Times Square, per mezz’ora tutto si è concentrato in una dimensione senza tempo, e mi sono reso conto di essere felice senza condizioni e senza necessità. Gramercy Park è un giardino non aperto al pubblico, il cui uso è riservato ai residenti nella piazza in cui è collocato. Poiché niente è gratis a New York, i residenti pagano per avere le chiavi del parco e, suppongo, che tale canone serva anche per la manutenzione degli alberi e delle piante. Il fascino dell’esclusività di un luogo che può essere solo sbirciato attraverso le inferriate che lo delimitano, si unisce ad una reminescenza aristocratica e molto italiana in fondo. Non esisteva palazzo o dimora rinascimentale che non avesse il suo splendido giardino: questo rimando alla nobiltà, così singolare in una città molto plebea, mi ha reso simpatico questo luogo perché è vero che questa nobiltà è frutto del denaro, però indirettamente, in quanto l’abitare prevale sull’avere. Ai limiti del Village c’è Washington Square Park, sempre affollato, pieno di personaggi da fotografare, pieno di musicisti e studenti della vicina NYU, dove ancora qualcuno prova a mantenere vivo lo spirito che fu fonte di tanta ispirazione musicale e letteraria. In mezzo al parco l’immancabile fontana, poco più in là una statua di Garibaldi e su uno dei lati un Arco di Trionfo di forme classiche, l’arco da cui il 23 gennaio 1917 Marcel Duchamp e altri amici dichiararono la repubblica indipendente di Wasghinton Square. Amo Duchamp e la sua stranezza o utopia se vogliamo, riproposta da Cattelan con il suo wc d’oro visto al Guggeneheim, e mi ha fatto sorridere l’idea che l’Arco venga oggi affittato per cerimonie ufficiali pubbliche. Infine Riverside, una striscia di sei chilometri di verde lungo l’Hudson, dove è bellissimo vedere il tramonto su Jersey City e sul lontano Washington Bridge. Era la nostra ultima sera a NYC e quindi la malinconia insita in ogni tramonto si è mescolata con quella che sempre s’affaccia quando un tempo sfuma e tutto deve ricominciare in un altro luogo. Per fortuna però il nostro viaggio non era finito: Niagara Falls, Boston e lenta marcia di avvicinamento al JFK di New York attraverso Massachussets, Rhode Island e Connecticut. Di Niagara Falls posso solo dire che l’uomo si è accanito contro una natura straripante, circondando un fantastico spettacolo naturale con cemento, casinò, alberghi di 30 e piani e una torre di 80 metri con ristorante annesso. E poiché le cascate sono al confine tra Stati Uniti e Canada, i due paesi hanno giocato a chi lo fa più grosso e più alto, raddoppiando così lo scempio, uniti in una concezione che, per motivi di lucro, mira a trasformare un luogo di straordinario interesse naturalistico in un gigantesco luna park. Dopo un breve giro tra le campagne intorno all’Ontario dove tra fattorie, campi di granturco, e piccole cittadine disseminate delle tipiche case in legno (tutte ossessivamente con Stars & Stripes esposta) è possibile assaporare un’America molto lontana dalle sue avanguardie, torniamo verso la costa attraversando il verdissimo Massachussets per arrivare a Boston. Con cielo e luce tipici di una città di mare, Boston è una città all’opposto degli stereotipi newyorkesi, raccolta, gelosa delle sue origini, pedonale, con uno stile british un po' svecchiato, la città dove vorresti vivere insomma, o almeno studiare. Questo succede ai fortunati che si possono permettere Harvard (45 mila dollari l’anno e la speranza di diventare presidente visto che ne ha sfornati diversi). Situata nel bel paesino di Cambridge, poco fuori downtown, l’università comprende una serie di edifici storici che si inseriscono in un contesto old style fatto di costruzioni basse a mattoncini caratteristiche di Boston. Città di mare dicevo e allora abbiamo voluto vivere un’esperienza unica: il whale watching. A circa 50 miglia dal porto, davanti a Cape Cod, c’è un vero e proprio santuario dei cetacei, richiamati dalla presenza di correnti fredde. Abbiamo visto almeno una decina di balene, una con il suo piccolo, anche a pochissima distanza dalla barca. Certo, le barche portano centinaia di persone alla volta viaggiando a 30 nodi, però, oggettivamente, non esistono molte altre possibilità per le persone “normali” di fare questi avvistamenti. L’ultima tappa del viaggio è stata una piccola cittadina sulla costa del Connecticut, Mystic. Case di legno dipinte di bianco, baie profonde, verdissime e senza vento, porticcioli e pontili, piccoli inn a conduzione familiare, ostriche freschissime, spiagge deserte e vecchi fari soggetto di tanti paesaggi dipinti da Edward Hopper, sono il segno distintivo di questo tratto di costa che va da Newport (dove è nata l’America’s Cup) a Stonington e Mystic., Purtroppo, per motivi di tempo abbiamo dovuto saltare Cape Cod e l’isola di Martha’s Vineyard, famosa per essere stata il luogo di vacanza della stirpe dei Kennedy. La tranquillità di questi luoghi, la bellezza rilassante e silenziosa di Mystic, poche case e barche divise da un fiume che si attraversa su un vecchio ponte di ferro girevole, sono stati il naturale epilogo di un viaggio iniziato con la frenesia e la opulenta modernità di New York e che finisce invece nel disincanto un po' retrò di un vecchio porto baleniere.
Sono sempre i particolari che lasciano una traccia profonda dei viaggi, i rimandi alla nostra vita, alla nostra storia, direi alla nostra mistica: quanto più ci si perde più si conosce, perché non sappiamo rinunciare al caso, all’occasione, alla scoperta. E’così raro avere coscienza di questo senso ultimo del percorrere strade e attraversare luoghi perché spesso siamo troppo impegnati a vedere, a conoscere, a visitare. Ma quando torniamo a casa la potenza delle emozioni vissute ritorna depurata dalle necessità e dalle incombenze quotidiane del viaggio e ci racconta, attraverso una vista minore, l’unicità e la bellezza di pochi indimenticabili momenti che abbiamo vissuto.
2 Commenti
L’isola del Giglio ti accoglie sempre in modo sorprendente, con le sue piccole case colorate del porto, le palafitte dei ristoranti, le macchie di buganvillea che spuntano tra il verde e il granito, la torre pisana e il profilo arcigno e possente del Castello. Per tre estati, dal 2012 al 2014, la sagoma chiara della Costa Concordia è stato l’amaro biglietto da visita di questa piccola e splendida isola: la nave inclinata sul fianco destro quasi ostruiva l’ingresso al porto e il suo profilo abbagliante era visibile dal traghetto poco dopo aver abbandonato Porto Santo Stefano. Poi l’impresa fantastica: il raddrizzamento, la rimozione e un viaggio simile a un tragico funerale lungo tutto il mar Tirreno. Il Giglio è uno scoglio aspro e scosceso con pochissime spiagge (Cannelle e Caldane, a sud ovest, dalla sabbia dorata e brillante, Campese dalla parte opposta) e nessun altro approdo oltre al porto che guarda l’Argentario. Due fari bellissimi presidiano il nord, Capo Fenaio e il sud, Capel Rosso. Qui, un sentiero e una lunga scalinata scavata nel granito – immortalata da Sorrentino nella scena finale della Grande Bellezza - portano fino al mare, profondissimo già a poche decine di metri dagli scogli e di un cobalto incredibile. Il versante che va da Capel Rosso al faraglione di Campese è una parete rocciosa selvaggia, quasi priva di vegetazione se non per alcune piccole vigne eroiche e la stranezza di una palma sopra la grotta di Cala del Corvo. Sullo sfondo, verso ovest, Montecristo, una cresta di pietra alta seicento metri che al mattino riflette il sole e riempie di grigio l’orizzonte. Cala dell’Allume, il Pozzarello e l’ampia baia di Campese riservano colori dovuti alla presenza di ferro, zolfo, manganese che per un periodo breve diedero vita a iniziative di sfruttamento minerario. Il Castello è il cuore dell’isola, sorge su uno sperone di roccia scoscesa e dalle sue mura la vista copre uno spazio enorme, la costa da Civitavecchia a Piombino, l’Amiata, l’Elba, Montecristo, la Corsica e Giannutri. Una passeggiata serale per le stradine di Castello ha un fascino particolare e se si ha la fortuna di ascoltare il maestro Uto Ughi esercitarsi al violino si può sfiorare il sogno. Il borgo fortificato testimonia delle difficoltà nel tempo alla vita “sul mare”, e chiarisce anche come l’isola non abbia mai avuto una specifica vocazione marinara. Il piatto tipico gigliese infatti è il coniglio selvatico (sono di piccole dimensioni, è facile incontrarli nei sentieri e purtroppo vengono catturati in notevole quantità con trappole rudimentali che li mutilano in modo crudele). Certo, nei ristoranti il pesce viene proposto in grande quantità, ma le barche di pescatori gigliesi si contano sulle dita di una mano. L’altra specialità gigliese è il vino, l’Ansonaco, prodotto da vitigno autoctono, che viene coltivato in piccole vigne, dalle piante basse, spesso in località improbabili e su un terreno sostanzialmente roccioso. Queste caratteristiche si riflettono nel colore ambrato, carico e nella gradazione alcolica elevata per un vino bianco, non inferiore ai 14 gradi. E’ un vino dal sapore antico, sostanzialmente fatto fuori dai contesti enotecnici così sofisticati di oggi, dove la “cantina” non ha praticamente peso. Il mare: l’isola è un luogo speciale per i sub in quanto non è necessario raggiungere profondità elevatissime per ammirare fondali bellissimi. Più semplicemente posso dire che la limpidezza delle acque, i colori, la presenza di una grande quantità di pesci ammirabile anche con maschera e boccaio, rendono indimenticabile un bagno nelle spiagge e nelle calette dell’isola.
Dopo venti anni di arrivi e di ritorni fatico ad identificarmi come semplice turista: posso solo dire che dopo tutto questo tempo l’isola riserva ancora stupore e bellezza, dai solari ed intensi profumi di mirto e rosmarino al notturno inquietante scroscio del mare sferzato dal maestrale, dai sassi colorati di una piccola e solitaria caletta, alla nebbia che, anche nelle giornate estive, avvolge e dà un senso di mistero al Castello, ai lunghi e sempre diversi tramonti estivi sulla baia di Campese. Quest’anno, al ritorno, in un’atmosfera carica di un silenzioso spleen, accanto al traghetto due delfini hanno danzato in controluce: l’ultima piccola magia che fa già desiderare di ritornare a quel mare ed al suo fragrante abbraccio. Domani sera sarò affacciato sul golfo di Campese all'Isola del Giglio ad aspettare, come sempre, il tramonto. Amici, relax e letture: Quarta parete di Sorj Chalandon, Voi due senza di me di Emiliano Gucci e Il giardino segreto di Banana Yoshimoto. Poi canoa, maschera e la Yamaha (chitarra) per un pò di revival. E, con un pò di fortuna, gli esercizi al violino di Uto Ughi dalla sua casa al Castello.
Chi passa di qua e vuole fermarsi con noi è sempre benvenuto!!! Ho rivisitato il mio sito sia dal punto di vista del layout che dei contenuti. Ho cercato di semplificare la lettura e di limitare le informazioni e considerazioni personali, lasciando più spazio a poesie e racconti. Nella pagina HOME trovate varie raccolte di scritti, in SCOPRI una poesia che ho dedicato a me stesso e alcune fotografie sui miei luoghi del cuore.
Questo BLOG è invece la pagina su cui voglio lasciare spazio a idee, ricordi, commenti e a tutto quello che mi viene in mente e che possa essere letto da altri (il cazzeggio insomma) e anche, ovviamente, alla scrittura. Buona lettura a tutti. |
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